mercoledì 27 aprile 2011

In viaggio

Siamo in viaggio. Non importa la destinazione. L'importante è muoversi.
From Etsy via vol25

lunedì 11 aprile 2011

Il punto di arrivo e di non ritorno

Un'amica mi chiede un consiglio.

Immagina che qualcuno ti dica di imboccare un'autostrada, un percorso che conosci a menadito, che non segui da qualche tempo ma che conosci molto bene; nel frattempo qualcuno ci avrà costruito dei nuovi ponti, risistemato l'asfalto, tagliato qualche albero ma quell'autostrada riusciresti a farla ad occhi chiusi perché per un lungo periodo l'hai attraversata avanti e indietro a passo d'uomo a volte, oltre i limiti di velocità altre.


Sul percorso dovrai per forza fermarti alle stazioni di servizio e fare il pieno di benzina o la macchina che ti porta necessariamente si fermerà; non ci sono ancora alternative alla benzina: puzza, inquina e costa un sacco di soldi ma fin quando non avrai una macchina elettrica o una bicicletta in grado di portarti fuori pista non hai alternative. Ti daranno dell'anti-ambientalista, del pigro e del conformista, etichette da cui da tempo vorresti affrancarti.


Per un tempo non definito, perché non ti è dato modo di saperlo, non sarà un percorso a una direzione, andrai avanti e probabilmente imboccherai delle uscite sbagliate, tornerai indietro per ritrovare l'ingresso nella direzione opposta e via di nuovo. Troverai lavori in corso, traffico, incidenti, code, il deserto della notte, il caldo dell'estate. Il costo dei pedaggi e della benzina sarà molto alto.


Sai benissimo cosa troverai alla fine dell'autostrada, conosci bene anche quel punto di destinazione. Proverai una sensazione di onnipotenza, di avercela fatta, troverai persone che ti daranno una bella pacca sulla spalla e magari ti diranno che sono fieri di te. E' un luogo però in cui hai una sola certezza: sarai da solo. Persone (i tuoi figli oppure la persona che ami, oppure i tuoi genitori, il tuo migliore amico, fai tu), sogni e progetti che erano con te nel punto di partenza non ci saranno più. Sono persone che ami infinitamente e sogni a cui tenevi tantissimo, ma che non intendono ritrovarsi all'appuntamento del punto di arrivo. Tu sei lì che guardi avanti e loro rimangono indietro. Nel loro sguardo c'è solo il desiderio che tu parta, nessuna parola sul fatto che ci saranno. Non ci saranno.


Ma se sai che devi arrivare a una destinazione in cui la cosa a cui più tieni non ci sarà, tu partiresti?

martedì 5 aprile 2011

Riconciliazioni

Prima di diventare genitori si è solo figli e come figlio hai solo il ricordo e il vissuto sulla pelle della relazione con i tuoi genitori.

Tipicamente quando poi diventi genitore, madre perché sto parlando di me, si ritrova un filo di ricongiungimento con la propria di madre e si capiscono sentimenti, fatiche, severità e desideri trasposti. Non nego di aver capito mia madre molto più da madre che da figlia ma riconosco anche di averla portata al suo posto, al mio livello rendendola più umana e quindi, in questo senso, più comprensibile.

Eppure la conseguenza più inaspettata, vissuta nel mio divenire ed essere genitore, è stata e continua ad essere la comprensione di mio padre.

Ho sempre saputo di essere molto simile a mio padre, soprattutto nei difetti, e questo ha spesso generato un conflitto di interessi. Se c'è una cosa che in questi anni ho realizzato è che quando una persona ti risulta particolarmente indigesta è perché, il più delle volte, ti somiglia piuttosto che sembrarti diversa. Le persone che più ci disturbano sono spesso proprio quelle in cui ritroviamo i nostri limiti, i nostri spigoli e specchiarvisi non può che recare disturbo.

Da figlia riflettermi in mio padre è stato frustrante, mentre da madre è diventato un momento di riconciliazione. Prima non capivo il sentimento forte e devastante di gelosia che lo portava a non accettare l'amore assoluto di mia madre nei confronti di noi figli, oggi mi ci immedesimo quando vedo che i miei figli hanno priorità su tutto e invece che unirci come coppia ci allontanano. La coppia passa in secondo piano, in certi casi si annulla. Si amano sempre e troppo i figli rispetto a chi quei figli li ha desiderati e generati.

Oggi capisco molto di più l'amore relativo, offeso di mio padre che quello assoluto e superbo di mia madre, quasi mi sembra che avesse più senso di quello senza condizioni per individui che a un certo punto devono affrancarsi da te e prendere la loro strada.

Ideale credere che in futuro ci sarà una famiglia, auspicabile che resti la coppia.

Link di approfondimento:
Quando il progetto fallisce
Gestire i conflitti di coppia

domenica 3 aprile 2011

Dipendenze - Parte seconda

Solo per dire che non ci sarà una seconda parte. Mi è e ci è bastata la prima.

martedì 29 marzo 2011

Motori Ruggenti

 
Ecco, ci siamo... Concentrati... Velocità, sono pura velocità. Un vincitore, 42 perdenti: i perdenti io me li mangio a colazione. Colazione? Forse avrei dovuto fare colazione, ora mi sentirei meglio... No no no, resta concentrato... Velocità... Sono rapido. Più che rapido, sono una saetta! (Saetta McQueen- Cars)
Chi parla non è MC, ma quando inizio a vedere questo film con i miei bambini, davanti a una ciotola di pop-corn, mi piace ascoltare queste parole di auto-motivazione che Saetta McQueen si racconta prima di iniziare la gara. Mi sembra di ascoltare quello che non sono, una persona poco competitiva che non ama dividere il mondo tra vincenti e perdenti. Eppure mi piacciono le sfide e mi piace farcela, ma contro me stessa e non contro degli avversari. Tutto questo suona molto buonista (io che sono una Mamma Cattiva) ma la mia vita racconta questo e non posso negarlo.

È un periodo in cui mi interrogo molto sul mio reale grado di competitività. Mi sforzo di tirare fuori un po' più di grinta e di energia anche con l'intento di trasmetterlo a Leo e Picca.

"Non ci riesco" dice Leo, "non ci (r)iesco" dice Picca.
"In questa casa le parole non ci riesco non esistono" risponde MC.
"Esistono delle parole magiche che hanno il potere di far riuscire le cose".
"Dimmi, MC, dimmi, quali sono queste parole magiche?".
"Ci provo" dice MC.
"Ci p(r)ovo" scimmiotta Picca.

Facciamo una prova. Leo la mattina non riesce ad allacciarsi i pantaloni.

"Non ci riesco" dice Leo.
"In questa casa le parole non ci riesco non esistono" risponde MC.
"Esistono delle parole magiche che hanno il potere di far riuscire le cose".
"Dimmi, MC, dimmi, quali sono queste parole magiche?", chiede Leo.
"Ci provo" dice MC.
"Ci p(r)ovo" scimmiotta Picca.
"CI PROVO" grida Leo e tre secondi dopo il bottone scivola nell'asola.
"Vedi? E' una parola magica. Se poi capiterà che non funzioni insisti e se proprio non funziona, mi vieni vicino e mi chiedi aiuto. Solo dopo aver provato la parola magica. Puoi anche dirla piano piano, senza che nessuno ti senta, "a bassa voce". In quel caso funziona meglio."

Siamo tornati dalla nostra prima settimana bianca tutti insieme.

Dopo ben venti anni ho rimesso gli sci ai piedi, io che ho iniziato da grande (se a 17 anni ci si può definire grandi), io che le prime volte recriminavo i miei genitori per non avermi messo su un paio di sci da piccola, quando non si conosce la paura, io che ce l'ho messa tutta per recuperare un po' di padronanza. Poi ho di nuovo smesso. Non so proprio perché. I fatti della vita.
E dopo venti anni è stato come rimontare su una bicicletta. Via giù per i pendii innevati.

Con Leo e Picca ho deciso di dare loro l'opportunità di scegliere. In questo momento sono io che li conduco. Più avanti decideranno loro cosa farne. Ma almeno potranno scegliere.

Il bilancio di questa prima esperienza è stato positivo. Si sono divertiti, hanno preso confidenza. Durante l'orario del corso, ogni tanto andavo a sbirciarli ma nascondendomi perché non volevo condizionarli e mi venivano le lacrime agli occhi. Hanno fatto la "gara" di fine corso senza neanche capire cosa fosse una gara. Leo ha detto di essere sceso piano perché ha sentito Picca dirgli di andare piano. Io mi sono resa conto di non aver spiegato loro cosa è una gara mentre scendevano.

Da lontano, ne sono certa, sentivo Leo e Picca sussurrare "a bassa voce": ci p(r)ovo.

[1 aprile 2011] Aggiornamento del post: Ieri mattina, solita scenetta ma gestita dal doc, i bambini che devono vestirsi per andare a scuola e Leo e Picca che dichiarano l'ennesimo "Non ci riesco". Io intercetto lo sguardo di Leo e al mio occhietto lui dice prontamente "ci provo". Il doc scatta e dice "No, ci provo, ci riesco e basta!" Della serie "andiamo dritti all'obiettivo". Secondo me il doc ce l'aveva con me. ;)

domenica 6 febbraio 2011

Dipendenze - parte prima

Alberto Cottignoli
Quando mi trovai nel mezzo del mio inferno ci si trovò dentro anche il Doc. Per un po' resse, è sempre stato un po' votato a salvare le vite, ma poi crollò e proprio quando sembrava che mi reggessi con le mie gambe decise di abbandonare il campo. "Me ne vado. Te la devi cavare da sola."
Non disse così ma quella era la sostanza.

All'epoca i miei risultati li ottenevo con l'aiuto contemporaneo di una psicologa, di buone dosi di psicofarmaci e della mia psiche. Perché "aiutati che dio ti aiuta".
La mia psicologa è stata eccezionale. Non c'è giorno in cui non pensi che mi abbia salvata la vita. Sento intorno a me diverse storie molto deludenti di psicoterapia: professionisti muti, inconsistenti e poco efficaci. Percorsi interminabili che non arrivano mai all'affrancamento. Indubbiamente ci sono altrettante storie di successo. Lei mi prese tra le sue braccia, in senso lato, mi fece accomodare davanti a se e sempre guardandomi negli occhi mi fece sviscerare tutto ciò che mi impediva di brillare di luce mia, parlando molto anche lei, suggerendomi letture e riflessioni e poi arrivò il giorno, dopo tre anni, in cui io stessa capii che potevo salutarla e procedere da sola.
Per scherzare racconto sempre che quel giorno capitò quando lei spese la nostra ora e mezza a convincermi che dovevo comprarmi un gatto. In quel momento le dissi "senti io vado".  :)

Mi ha messo nelle mani e nella testa degli strumenti dal valore incommensurabile che mi sarebbero stati imprevedibilmente utili anche dopo, per Leo e per Picca.
Un concetto chiave su cui abbiamo lavorato tanto è stato il concetto di dipendenza.
L'ambito principale in cui questa professionista opera è quello dei Sert per cui è quotidianamente immersa nelle problematiche legate alle tossicodipendenze. Mi chiedevo sempre se non mi percepisse, abituata a gente molto più disgraziata di me, come l'ennesima bambina viziata che si rifugia nella depressione e nei disturbi dell'alimentazione per gridare al mondo di essere ascoltata. Ma era una mia percezione perché dal primo all'ultimo giorno mi ha curata come la prima delle sue pazienti.

Partiva dal presupposto che tutti dipendiamo da qualcosa. Inutile accanirsi su questa certezza. Che lo si voglia o no, tutti sottostiamo a una dipendenza. Prima lo riconosciamo e meglio è per tutti. La differenza sta nella scelta della cosa da cui dipendere. Perché dipendere genera conseguenze costruttive o distruttive.
In quel percorso in parte ero caduta nella tentazione di dipendere dal Doc, come del resto prima avevo deciso di dipendere da qualcun altro che mi portasse via da quella che vivevo come una gabbia. In sostanza io dipendevo da qualcuno che potesse cambiare la mia vita, che le desse la forma che volevo e non solo non capivo che dovevo essere io a prendere le redini e che la cosa fosse possibile, ma che le persone caricate di questa responsabilità si sarebbero presto stancate e avrebbero scelto un'altra strada. Le persone quando si stancano possono decidere di fare due cose: andarsene oppure restare ma per obbligo. Non c'è scampo. E quando decidono di andarsene fanno bene.

Quando argomento questo passaggio molti mi dicono, sempre fraintendendo, che non c'è nulla di male a dipendere da qualcuno, che quello è l'amore. No. Sono irremovibile. Quello non è amore. È un peso disumano. Chiunque, anche una madre, un padre e un figlio possono stancarsi di questo.

Da allora quindi lavorai intensamente sull'autodeterminazione. Feci scelte misurabili concretamente, tipo andare a vivere da sola o partire per il Nepal senza conoscere nessuno dei compagni di viaggio, ma per di più si trattò di adottare contromisure intangibili. Fu dura.

Insieme alla psicologa c'erano anche gli psicofarmaci. Inizialmente non potei neanche esprimermi in merito. Me li iniettavano e basta poi però proseguii con la personale giustificazione che come chi si frattura una gamba prende antidolorifici e fa fisioterapia allo stesso modo io dovessi sottopormi a un trattamento analogo dedicato alla rottura della psiche. Tutto andò per il meglio, arrivò anche il giorno dell'addio alla dipendenza dalle pillole, anche grazie alla terza gamba, la mia psiche appunto che si impegnò molto e trovò molte risposte. 

Il resto è storia.

Questo post è diventato molto lungo ma è per me molto importante e c'è un seguito. Lo pubblicherò fra qualche giorno. Come nella migliore delle tradizioni. Questa però non è una soap opera.

domenica 30 gennaio 2011

Il valore della vergogna

Marta Czok
Il giorno che capii fin dal profondo delle mie viscere di aver fatto una scelta sbagliata, una scelta che coinvolgeva la vita di una persona e il suo futuro, sprofondai nella vergogna, una vergogna così nera e totale che pensai che l'unico modo per uscirne fosse morire. Prendo le cose sempre molto seriamente e l'avergli detto "finché morte non ci separi" davanti a un capo della chiesa e magari anche davanti a Dio, alle istituzioni, ai miei genitori, a suo padre, a parenti ed amici mi sembrò un impegno serio, un giuramento che non potevo rinnegare. La soluzione sembrava poter essere solo auto-distruggersi, sparire dalla faccia della terra piuttosto che chiedere scusa o ammettere di essersi sbagliata.

Mi sono sempre interrogata sull'origine di un senso della responsabilità così forte, su cosa di quello che ci passano l'educazione, la morale, i geni, il caso combini un risultato così deciso. Per ognuno di noi esiste una frazione di secondo in cui ci si trova a scegliere tra il proprio bene e il proprio male. Come quella volta, a 16 anni, in vacanza, nella Francia della costa atlantica,  in cui mi ritrovai a una festa, con un gruppo di figli di papà, con la sola voglia di divertirmi e di sentirmi libera ma soprattutto bella e desiderata. C'era lo champagne, le ostriche della Bretagna e c'era anche la droga, una polvere bianca e inconsistente. Il tempo per dire sì o no era molto poco, il tempo per sentirsi dentro o fuori era ancora meno. Il mio non fu un atto di coraggio. Io non ero affatto coraggiosa o sicura di me, al contrario mi nascondevo dietro la scelta di affiancarmi a persone grandi e spregiudicate. Ma dissi di no, guardai negli occhi di quella persona e dissi più che altro a me stessa che potevo scegliere. Non pensai ai miei genitori, pensai a me stessa.

La scelta tra il bene e il male è per me un pensiero ossessivo. Ora poi che ho la responsabilità di due figli mi chiedo quotidianamente dove troveranno loro quel confine, lontani da me, dai miei occhi e dai miei permessi e dai miei divieti. Mi chiedo come sia possibile che io abbia provato vergogna per un matrimonio fallito e spesso per molto meno, mentre un uomo al vertice di uno stato, nell'esercizio delle sue funzioni pubbliche non abbia neanche un secondo di sussulto, neanche inconscio.
E allora mi chiedo se la vergogna non sia piuttosto un valore, se i sensi di colpa, quelli legati a scelte che provocano conseguenze tangibili, mutilanti sulla vita delle persone non siano auspicabili e terapeutici.

Noi madri che abbiamo generato la vita siamo qui a flagellarci per una poppata in meno, uno strillo in più, per il troppo lavoro, per il poco tempo trascorso con bambini che hanno già tutto e là fuori persone che speculano sui falsi sensi di colpa impoveriscono liberamente il nostro futuro. Hanno anche il coraggio di chiamarla libertà.

sabato 1 gennaio 2011

Il rifugio

Foto di Mamma Cattiva (Austria)
Ci siamo. Devo battezzare la parola chiave del 2011. È un impegno verso la colonna sinistra di questo blog ma soprattutto verso me stessa. Non è una parola guida dei buoni propositi, al contrario i buoni propositi meglio lasciarli stare che espressi in questo periodo tendono statisticamente ad essere mancati, come dei birilli, uno dietro all'altro. La parola deve ispirarmi, suggerirmi le priorità, darmi coraggio, indicarmi la strada e alla fine mi suggestionerà e "mi farà compagnia", come direbbe Picca, quando ha bisogno del mio aiuto.
C'è un grande obiettivo che al doc e me, finché andremo d'amore e d'accordo, da' grande speranza. È un traguardo, di quelli che però fanno quasi ricominciare, che chiamiamo il nostro rifugio. È qualcosa che va oltre i nostri figli, semmai il destino ci darà il giusto tempo per vivere insieme, da soli, osservatori a distanza della loro indipendenza. Il nostro rifugio è una piccola casa lontana da tutti gli obblighi che fino ad oggi tolleriamo, in un luogo dall'orizzonte infinito, un posto che ci racconti di sé non appena lo troveremo. Abbiamo delle idee ma non l'abbiamo ancora trovato, forse trovarlo oggi sarebbe troppo presto, non vorremmo sentirci rapiti da una realtà troppo diversa da quella che viviamo oggi.
Quando partiamo, soli o con i nostri figli, per pochi giorni o una vera vacanza, i nostri occhi esplorano i dintorni, ci perdiamo volutamente, scattiamo delle foto e speriamo che in qualche pertugio inatteso si trovi la destinazione della nostra vera libertà.

Per adesso la zona che prediligiamo è in territorio francese. Entrambi adoriamo la Francia. Il doc ed io, infondo, ci siamo incontrati di nuovo a Parigi, al matrimonio di una nostra cara amica. Di nuovo perché ci eravamo già conosciuti undici anni prima in circostanze poco sospette. Spesso ci diciamo che se avessimo capito allora quello che ci legava ci saremmo evitati un sacco di errori e risparmiato tempo prezioso, ma evidentemente i tempi per essere giusti devono fortificarsi di solchi profondi.
Il nostro amore per la Francia ci ha riavvicinati e magari in futuro ci ritroverà affiatati o magari no.

Il doc aspira alla Bretagna, l'oceano, il vento troppo freddo, io alla Provenza secondo lui troppo costosa e alla moda ma per me calda, profumata e accogliente.
Eppure nel nostro girovagare abbiamo sospirato in Portogallo, in Austria, in Guatemala, in regioni italiane diverse dalla nostre origini.

La parola del 2011 sarà "Ricerca" ma non del rifugio bensì del tempo perso, delle soluzioni nelle righe scritte da altri, dei richiami di quello che potrebbe essere un futuro diverso, delle alternative a questa sensazione di appartenere a una vita troppo complicata e superflua. La ricerca mi distoglierà dalla abitudine cronica di essere in ritardo, mi farà scegliere e selezionare, mi spronerà a dire più no.
I miei bambini mi aiuteranno in questo, loro assetati di dettagli e di approfondimenti. Sarò meno presente in alcuni luoghi e per la prima volta in altri.
Proverò a recuperare alcune persone e a lasciarne altre ma poche perché le persone che seguo sono preziose.

Ora scrivo Ricerca nella colonna sinistra del blog.