mercoledì 23 dicembre 2009

Balla che ti passa


Da piccola, come da copione, volevo diventare una ballerina di danza classica. Non lo volevo solo io, ma anche Nonna Cattiva e ancora più di lei la sua mamma, la mia nonna.
Mia nonna, fin dall'età di quattro anni, mi accompagnava a scuola di danza, con una Mini Cooper color cacca. Eravamo nei primi anni '70 e avere una nonna che guidava la macchina era un fiore all'occhiello. Se poi la nonna in macchina cantava con te a squarciagola e ti raccontava storie bellissime c'erano i presupposti perché diventasse la tua eroina. E lei lo era. Era la mia musica, il mio esempio di vita vissuta con passione e nel mio cuore è tutt'ora la persona più bella che sia mai stata nella mia vita. Quando ci ha lasciati, anche se erano già capitati episodi di morte prematuri, io ho veramente realizzato per la prima volta cosa significasse perdere una persona che ami.

Mia nonna amava la musica, la danza e lo spettacolo e lo ha trasferito ai suoi figli e ai suoi nipoti e magari qualche soddisfazione sono riuscita a dargliela.
A sei anni iniziai i corsi propedeutici dell'Accademia Nazionale di Danza di Roma. Frequentavo con rigore e assiduità le lezioni che però, per i piccoli, si tenevano in vecchie palestre sparse in giro per la città. Mi ricordo che per un paio di anni andai in una sede di Via de' Giubbonari, per chi è pratico di Roma nella zona di Campo de' Fiori, dove Giordano Bruno fu arso vivo e, all'epoca, eravamo nel pieno degli anni di piombo. Capitava che annullassero le lezioni per le manifestazioni oppure ti fermassero per chiederti di perquisirti per vedere se in borsa portavi una bomba molotov. E mia nonna in tutta risposta faceva il segno del Duce come volesse mettere le cose in chiaro. Era una donna di quell'epoca e che ci piaccia o no molte si riconoscevano in quella storia. Crescendo ho poi maturato una mia posizione ma su certe idee, con lei, non mi sono mai messa di traverso, perché mi divertiva, mi insegnava la forza di determinazione, il rispetto per le persone, l'amore assoluto in cui poi non ho mai più creduto.


Alle scuole medie entrai ufficialmente in Accademia. Mia nonna dalla mini marrone era passata a una lunga Ford argento metallizzato. Era piccola di statura e per arrivare al volante metteva due cuscini sotto al sedere. Chiudo gli occhi e la vedo: lo sguardo spavaldo e le mani lunghe.
In Accademia frequentavo le lezioni di ballo, compresa la scuola obbligatoria, tutti i santi giorni, in una sede meravigliosa sul colle dell'Aventino. Dalle ampie vetrate delle aule dal pavimento scricchiolante di legno, odor di gesso e sudore, vedevo, mentre praticavo alla sbarra, il colle Palatino e le rovine dei palazzi imperiali romani. Vivevo in una specie di bolla insonorizzata in cui alimentavo un sogno che via via si diluiva attraverso le regole ferree, la ruvidità della vecchia direttrice che proibiva al suo passaggio di giocare, il dolore provato per sviluppare il collo del piede, scaldato dall'olio di canfora. Proseguivo sempre più demotivata, accattivata dai richiami del mondo intorno che andava avanti, fin quando, in prima liceo, si fece acuta una voce di ribellione, tanto grande da portarmi una sera a respirare forte e dire a mia madre, in uno stato di apnea, che avrei smesso, che la danza continuava a piacermi ma che non volevo più stare a quelle regole, che avrei potuto fare altro. Nonna Cattiva forse non me l'ha mai perdonato ma io feci, allora, la mia prima scelta autonoma.

Da allora non ho mai più praticato la danza classica. Ho frequentato corsi di danza moderna, contemporanea, jazz, afro-cubana ma mai più la danza classica. Dopo che hai provato un frustino da cavallo sulle costole per insegnarti a stare dritta, capito che ci vuole vero talento per diventare qualcuno, sentito troppe volte che sei troppo alta, che devi mangiare poco o diventi grassa, inizi a pensare che la vita è altrove e va vissuta diversamente.

La danza però ti rimane dentro, un marchio indelebile che ti accompagna nei movimenti e si incolla a ogni singolo muscolo del tuo corpo e della tua anima.
L'elasticità, le aperture e la fluidità di me bambina sono andate perdute ma, tutt'oggi, quando metto un pezzo di Tchaikovsky, braccia e gambe si animano e mi lascio andare a un ballo liberatorio.
I miei bambini hanno scoperto questa cosa e, se una musica li ispira, mi chiedono entrambi "Mamma balli?". Vogliono che li prenda per mano, in tondo, in braccio, a terra e partono le risate dall'interno della pancia e si divertono immensamente. Non si stancano mai. Sono io che con il fiatone devo dire loro "basta", la mamma è arrivata. E non esistono discriminazioni: Leo e Picca si lasciano andare, maschi e femmine, ballerine e soldatini. A nessuno viene in mente che la danza è roba da tutù, che è solo di colore rosa e per chi ha i capelli lunghi. Il ritmo ti prende da dentro e non ti chiede di che sesso sei.

Nella mia sala da pranzo c'è un ritratto di mia nonna. I bambini mi chiedono spesso se sono io. "Quella è la mia nonna. E' lei che mi ha insegnato a vivere con passione".

Le immagini sono tratte dal sito dell'Accademia Nazionale di Danza.

sabato 5 dicembre 2009

Una famiglia liquida

La mia è una famiglia liquida.

Non chiedete al Doc di dove è. Ti risponde con una lunga pausa, come per mettere ordine nelle sue origini: nato a Napoli da una calabrese, si trasferisce a Catania a pochi mesi di vita, nella città natale del padre. Qui ci resta per sette anni per poi muoversi su Milano, studiare da doc a Pavia, lavorare a Lecco e poi di nuovo a Milano, dove nasce Leo. E poi a Bologna per vivere tutti insieme, dove nasce Picca. E se fin'ora non vi siete persi per l'Italia, vi sarete resi conto che in questa famiglia non ce n'è uno nato nella stessa città. Quando compilo moduli burocratici che prevedono stati di famiglia il padre è NA, la madre (cattiva) è RM, il primogenito è MI e la seconda è BO. E se tutto funziona prossimo anno siamo a PR.

Intorno alcuni sono tornati in Calabria, altri a Roma, altri sono tornati dagli States e altri ancora negli States.

Fermi tutti! Fermatevi tutti!

Ogni tanto questa liquidità assorbe rumori di sottofondo dai mille accenti e modi di dire. Tanti, troppi o mai abbastanza approcci culturali distanti invadono il campo. Per forza di cosa i punti di osservazione sono molto diversi e raramente coincidono con la voce narrante.

A me i luoghi comuni assegnati ai luoghi di origine mi fanno ridere perché tutti sono tutto e il contrario di tutto.

Spesso mi chiedo perché trovo compatibilità e sintonia con voci sconosciute nella rete rispetto ai vicini di casa.

Dove è la verità? Nel mondo fisico tangibile ma spesso sfacciato e maleducato o nel mondo virtuale, garbato e regolato da norme di comportamento spontanee? E se le due dimensioni coincidessero?

Per giocare con i miei figli ho imparato molte filastrocche musicate. Prima del loro arrivo le lallabavo soltanto poi, con Filastrocche.it, ho imparato le parole. Alcune le ho inventate e stasera ne dedico una a Jolanda, lei capirà.

Si chiama "L'orsetto Zafferano", io ispirata dalla marionetta che vedete in foto, dalla passione per il cibo di mio figlio Leo, nato a Milano in una famiglia liquida:
Io sono Zafferano, l'orsetto di Milano.
Mi nutro di risotto perché ne sono ghiotto.

Se c'è la cotoletta ne voglio una fetta.
Se poi c'è il Panettone ne sono golosone.

La mia bela Madunina canto in doccia la mattina.
Di giorno vado in Brera, ci resto finché è sera.

Tifo l'Inter con papà,
ma ci vuole fedeltà [n.d.a. ricorreva l'anno 2005, tempi un po' più duri per la squadra del doc]

Sono amico di Leonardo...
che talvolta è un po'...PETARDO!!! [n.d.a. ricorreva quella fase meravigliosamente rumorosa]