sabato 27 febbraio 2010

Nemiche Amiche

Ho conosciuto la mia amica A. quando eravamo adolescenti, quando adolescenti si era intorno ai quindici anni, in Inghilterra durante una vacanza studio. Eravamo entrambe di Roma ma frequentavamo un liceo diverso. Allora ignoravamo e neanche immaginavamo che saremmo diventate amiche, amiche speciali, di quelle che neanche ti guardi negli occhi ma lo senti nell'aria che lei è con te e vive anche per te e tu per lei. Anzi, allora ci detestavamo. Era la mia estate benedetta da una buona stella e un belloccio del gruppo mi pendeva dalle labbra. Peccato che la mia amica A. ci moriva dietro e quindi avrebbe voluto sotterrarmi in una buca.

Il tipo aveva il cattivo gusto di confidarsi con lei e di sfogare i suoi sentimenti. Ebbero pure una storia insieme, se non sbaglio, ma vivendola capì che lui era niente mentre io ero un'amica.
A. iniziò presto a frequentare il nocciolo duro del mio gruppo di amiche. Quelle di partenza erano sette: les pléiades (le pleiadi), le sette stelle sorelle ma noi avevamo scoperto il nome allettante studiando letteratura francese e incappando nella "brigade", un gruppo di sette poeti francesi del XVI secolo, paladini di una lotta contro il mostro dell'ignoranza. Suggestioni forse, ma, oggi dopo più di vent'anni, siamo nove e ancora ci frequentiamo.

Con A. non è stato quindi amicizia a prima vista ma lentamente ci siamo osservate, poi avvicinate, stimate, frequentate, con e senza le altre. Abbiamo condiviso delusioni amorose, viaggi e separazioni, desiderio e rifiuto di maternità. A. è stata il mio faro quando ha avuto la sua bambina e ancor di più quando io ho avuto i miei. E prima di loro è stata accanto a me nei momenti più duri, senza dire una parola, stringendomi la mano, accarezzandomi la testa. Mi ha implorato di rimanere, di non lasciare il mondo perché infondo aveva senso restare.
Con lei ho capito che la maternità era anche tristezza, inadeguatezza e dubbi. Ne abbiamo parlato tanto. Ci siamo scritte tanto perché, infondo, in quei momenti abitavamo in città diverse. Ma nei momenti chiave c'è sempre stata, fisicamente e concretamente.

Preso il controllo della mia esperienza di madre mi sono anche affrancata, come è giusto che sia quando devi fare le tue scelte di madre e magari non ci condividiamo su tutto.

Ieri mi ha mandato questo testo in cui mi ritrovo visceralmente. E ci ritrovo anche lei sebbene so che lotti contro la tentazione contraria. Se me lo ha mandato, perché le è piaciuto, vuol dire che ci sta provando.
“La nascita e lo sviluppo di una vocazione richiede spazio: spazio e silenzio. Il rapporto che intercorre tra noi e i nostri figli dev’essere uno scambio vivo di pensieri e di sentimenti, e tuttavia deve comprendere anche profonde zone di silenzio; dev’essere un rapporto intimo, e tuttavia non mescolarsi violentemente alla loro intimità; dev’essere un giusto equilibrio tra silenzio e parole.

Noi dobbiamo essere importanti per i nostri figli, e tuttavia non troppo importanti; dobbiamo piacere un poco, ma non troppo, perché non salti loro in testa di diventare identici a noi. Noi dobbiamo essere con loro in un rapporto d’amicizia, eppure non dobbiamo essere troppo i loro amici, perché non diventi loro difficile avere dei veri amici.

Noi dobbiamo essere per loro un semplice punto di partenza, offrire loro il trampolino da cui spiccheranno il salto; essi devono sapere che non ci appartengono, ma noi sì apparteniamo a loro: sempre disponibili, presenti nella stanza vicina, pronti a rispondere…

E se abbiamo una vocazione noi stessi, se non l’abbiamo tradita, possiamo tener lontano dal nostro cuore, nell’amore che portiamo ai nostri figli, il senso della proprietà. Se invece una vocazione non l’abbiamo, o se l’abbiamo abbandonata o tradita, allora ci aggrappiamo ai nostri figli come un naufrago ad un relitto, pretendiamo vivacemente da loro che ci restituiscano tutto quanto gli abbiamo dato, che ottengano dalla vita tutto quanto a noi è mancato: vogliamo che siano in tutto opera nostra.

Ma se abbiamo noi stessi una vocazione, se non l’abbiamo rinnegata o tradita, allora possiamo lasciarli germogliare quietamente fuori di noi, circondati dall’ombra e dallo spazio che richiede il germoglio di una vocazione. Questa è forse l’unica reale possibilità che abbiamo di riuscir loro di qualche aiuto nella ricerca di una vocazione: avere una vocazione noi stessi, conoscerla, amarla e servirla con passione.”
“Le piccole virtù” di Natalia Ginzburg – Einaudi More about Le piccole virtù

martedì 23 febbraio 2010

Namaste Paola

Lo aspettavo da giorni. Sapevo che sarebbe arrivato. Il mio primo Blog Candy. Forse una delle poche cose che ho vinto ad oggi, non tanto per mancanza di fortuna ma perché sono poche incline alla ricerca della fortuna. Mi aspettavo un pacchetto delle Poste Italiane. Ho aperto la porta di casa, alle 21:30, stasera un po' incazzata, i bambini già in letargo. Neanche i miei baci li hanno svegliati. Ho intravisto il pacchetto e ho pensato "oh, guarda è arrivato il pacco di La Margherita e il Lappio, la potrò avvisare."

Avevo fame ma il gusto di aprire i pacchetti mi appartiene.

Ho infilato la mano e non ho sentito al tatto la fredda copertina di un primo libro e neanche di un secondo. Inequivocabilmente ho palpato il fruscio della seta. Ho sfilato il fagotto e ho subito capito. Perché Paola non lo sa, ma io sono un'appassionata di Saree indiani. Un tessuto meraviglioso, con i fiori, che sono la sua passione.


Ho frugato tra le pieghe della stoffa alla ricerca della carta ma trovo, sì la carta, ma quella di un sacchetto. Un sacchetto di carta pane di Nalli, "famous for silk sarees", c'è scritto, direttamente da Nagar.


Scarto questa scatola cinese e non è finita. C'è un pacco regalo, il cui involucro questa volta è di un cotone stupendo color corallo, altre scritte stampate, dal vago sapore coloniale e un nastro di passamaneria in velluto rosa antico e verde salvia. Incastrati, tra il fiocco, dei tipici bracciali indiani pieni di colori scintillanti, quelli che quandi li metti e ti muovi fanno "tin, tin". Domani Leo e Picca se li litigheranno. Troppo belli per lasciarli a dei bambini.


Sciolgo il nastro ed ecco i due libri: La città della gioia di Dominique Lapierre e Il dio delle piccole cose di Arundhati Roy.

Cara Paola, in questo momento sono sicura di una cosa. Magari molte persone che leggono questo blog non mi conoscono bene e non coglieranno questa sfumatura, ma quelle che invece frequento da tempo e che conoscono le mie ombre, le mie passioni, il mio modo personale di essere generosa, riconosceranno in questo dono la magia di uno stile che mi appartiene. E ti riconosceranno la suggestione del caso.

Mi hai regalato una cosa che era già mia.
Questi sono i miei colori, i miei tessuti, le mie letture, il mio modo di personalizzare e di sorprendere.

Namaste, Paola.

domenica 21 febbraio 2010

Un fine settimana da gineceo

Il copy del titolo lo devo a Panzallaria che così ha definito il mio fine settimana in corso quando ha saputo come l'avrei trascorso.

Il Doc è partito con Leo, prima volta "consapevole" su un aereo, destinazione Calabria, dalla nonna paterna. Il Doc non vedeva la mamma da tempo e ha deciso in quattro e quattr'otto di volare via. Ha onestamente ammesso di non farcela a portare entrambi i bambini e ha scelto quello che in viaggio avrebbe portato meno ammenicoli da bambino. Quando ha fatto mentalmente l'elenco della valigia, ha realizzato che le uniche cose diverse da un adulto sarebbero state il "chinno" (dicesi chinno l'oggetto transazionale, un cuscinetto ripieno di semi di lino da cui Leo non si separa mai per dormire) e una borraccia dell'acqua che la notte lo rende autonomo dal chiamarci ogni volta che ha sete, utile per ovvie ragioni anche in viaggio. Memorizzate queste due uniche differenze ha preparato la loro valigia con la stessa logica e infatti si è dimenticato il pigiama di Leo.

Il Doc, e di riflesso Leo, adorano gli aerei (tanto per farvi capire siamo abbonati a Volare e in bagno i due leggono e conversano su motori ed eliche) e la promessa di salire su un veicolo vero teneva Leo eccitato da circa un mese.

Flashback
- Quando nomino il chinno non posso fare a meno di ricordare quella sera in cui avevamo mia suocera da noi. Leo non stava bene. E quando sta male il 90% delle volte vomita. La nonna dormiva nella stanza dei bambini e il divano letto era già apparecchiato, ma senza cerata di protezione (mi ero detta: "la nonna mica farà la pipì a letto!"). Il folletto, indemoniato da un improvviso malessere, ha pensato bene di andare a rifugiarsi nel lettone della nonna scaricando il malessere abbracciato al suo amato chinno. Il chinno è appunto un cuscino e essendo inseparabile è salvato da una doppia federa. La nonna colta da panico dell'esorcista ha immerso l'imbottito di semi di lino in acqua. Io sono stata colta da un attacco isterico. "Togliere la federa, no?". Avete idea di cosa significa immergere dei semi di lino ricoperti di vomito in acqua? Ma soprattutto sapete cosa significa rendere inutilizzabile la coperta di linus di un bambino? Ammetto che la mia tolleranza verso le competenze di mia suocera è pari al nulla ma quella sera diedi il peggio di me. Ho risolto facendo cucire a Nonna Cattiva due chinni identici e Leo in lutto per un'intera settimana.

Back forward
- I due uomini di casa sono quindi partiti. Nonna Cattiva non ha resistito e appena ha saputo della trasferta, colta da immensa nostalgia, ci ha raggiunte. Di qui la definizione di week-end da gineceo: uomini e donne separate.

Ispirata dunque dai luoghi comuni ho pensato bene di rafforzarli dedicandoci un bel sabato mattina dal parrucchiere. Non ci andavo da novembre e Picca aveva una frangetta che sembrava un cane da pastore catalano. Siamo uscite tre donne nuove.

Il mio parrucchiere è una di quei servizi che farò fatica ad abbandonare quando lascerò Bologna. Non solo perché mi fido di lui e non mi ha mai mandata via scontenta, ma perché mi riserva un trattamento difficilmente replicabile: da anni ha una saletta privata al primo piano dedicata al taglio dei bambini (dei capelli, non dei piccoletti se si comportano male), con tanto di piccola area giochi, oppure alle mamme accompagnate dai bambini, che tipicamente sono poco tollerati durante un trattamento estetico, oppure agli uomini che si tingono i capelli ma si vergognano di farsi vedere al piano terra insieme alle altre. Per me significa poterci andare con i bambini, sfuggire ai pettegolezzi da coiffeur e leggere quello che mi pare. Priceless!

domenica 14 febbraio 2010

Lungimiranza e illuminazioni

[Miami, novembre 2009, Il Doc]

Dopo un quarantennio di vita più o meno intensa posso tranquillamente dire di non essere una persona lungimirante. Non ho cioè la capacità di intuire, a fronte di una determinata scelta, quali saranno le conseguenze che la maggior parte delle persone accorte e previdenti già conoscono da tempo. Non a caso la frase che più detesto è "te l'avevo detto".

Diversamente posso ringraziare i momenti in cui mi sono riscattata attraverso delle illuminazioni: rivelazioni colte in un istante, traghettate da parole, spesso non cercate, da parte di persone casualmente in transito ma, ancor di più, dalla lettura o dalla conoscenza del diverso nel corso dei miei viaggi. Illuminazioni che mi hanno salvata poco prima di fare scelte avventate o durante esperienze in corso o dopo errori già conclamati. Molti lo chiamano "culo".
Questo ha significato non tanto avere il coraggio di prendere decisioni tempestive che altri non avrebbero preso ma, piuttosto, ignorare irresponsabilmente i rischi di un'azione, spesso pagando ma talvolta guadagnandoci dopo.

Non sono stata lungimirante nella scelta degli studi, dell'uomo da sposare, nella gestione del primo lavoro.
Non sono stata lungimirante nella scelta di diventare madre.

Ho sempre desiderato avere dei figli. Da bambina avevo un quadernone intitolato "Quando avrò i miei bambini" e nel corso degli anni ci ho incollato ritagli di articoli, foto e chiaramente scritto pensieri e riflessioni su come avrei voluto essere come madre. La madre che oggi non sono: mancanza di lungimiranza.

Ho sempre saputo quindi che un giorno la questione "maternità" sarebbe diventata attuale ma non che sarebbe passata per fasi alterne: prima desiderio, poi timore, dunque ricerca, quindi disperazione, magari godimento. E chissà poi cos'altro.

In tutto questo tempo stratificavo il mio vissuto. I figli non sono arrivati con il matrimonio e li ho veramente desiderati solo dopo, insieme al Doc. Eppure dal desiderio al fatto sono passati due interminabili anni, quando ero già una donna matura e nel pieno del classico richiamo dell'orologio biologico, quell'odioso eco che spesso confonde le donne e fa desiderare un figlio piuttosto che l'uomo giusto con cui farlo. Evidentemente la mia testa aveva lavorato bene e me lo sono dovuto guadagnare.

La prima gravidanza è stata magnifica. Ero il centro del mondo e tutto questo ha contribuito a non prepararmi al dopo. Ho continuato la mia vita, ho lavorato fino alla fine, da sola, perché il Doc ed io vivevamo ancora a distanza, ma sapevo che dopo avremmo vissuto insieme, saremmo stati una famiglia. La mia ultima seduta di yoga è stata il pomeriggio prima di partorire. Ero la serenità in persona.

Dopo nulla è stato più come prima. Dopo ho amato mio figlio gradualmente e non il primo momento in cui me l'hanno consegnato come un panino. Un'infermiera di fronte al mio rifiuto di alzarmi dal letto per via dei dolori al taglio del cesareo, il giorno dopo la nascita, ha voluto regalarmi un "questa il secondo figlio non lo farà mai!".

Non sono stata lungimirante neanche quando ho deciso di avere un secondo figlio.
I rumori di sottofondo all'epoca ricorrenti risuonavano con "ma perché hai deciso di fare un secondo figlio se ti senti così inadeguata?".
Perché a me è piaciuto avere un fratello e una sorella. Illuminazione. L'ho capito dopo.

Picca è arrivata subito. Qualche nausea in più ma lo stesso una gravidanza vissuta in uno stato di grazia. Dopo un po' meglio ma sempre un grande sconquasso di emozioni devastanti, di desiderio di tornare indietro. Sì, tante volte ho pensato di volere la vita di prima, la mia solitudine, i miei tempi morti, i miei digiuni, il mio silenzio. I lungimiranti osannavano: "ma cosa credevi che fosse una passeggiata?".

Credo che nella maternità la mancanza di lungimiranza e la salvezza delle illuminazioni ci accomuni tutte. Per quanto diverse possiamo essere e diversi i nostri bambini, nessuna di noi può prevedere quello che capiterà dopo e troverà risposte salvifiche in piccoli momenti istantanei in cui arriva una persona e inaspettatamente ti dice la cosa giusta, oppure leggi una pagina e trovi la soluzione. I tuoi figli stessi diventano fonte di illuminazioni. Il più delle volte sono loro a suggerirti la strada.
Solo più tardi quei tempi infiniti, dilatati e irreversibili del dopo torneranno ad illuminarsi di leggerezza, di provvisorietà, di momenti con te stessa.

Alla fine mi sono abituata. Mi fido del mio istinto e aspetto la luce.

Questo post partecipa al blogstorming.

giovedì 11 febbraio 2010

A carnevale ogni scherzo vale

A me il Carnevale non piace. Che mi ricordi non mi è mai piaciuto ma, osservando i miei bambini oggi, mi sorge il dubbio che ci sia stato un momento in cui l'ho goduto.

La memoria mi manda indietro l'insofferenza per la preparazione della maschera, il talento creativo di Nonna cattiva che, abilissima sarta, cuciva lei stessa i costumi a caccia di originalità e ci proponeva in rari tessuti di pannolenci, ricamati con paillettes multicolori e fettucce antiche. I costumi erano delle opere d'arte ma nessuno capiva mai chi fossimo e da dove venissimo: la regina delle carte, la spagnola di Segovia, nulla a che vedere con la ballerina di flamenco del nostro immaginario bensì la copia perfetta di una bambola di quella regione. Con mia zia e i miei cugini andavamo a delle feste a premi e vinceva sempre mio cugino vestito da Zorro.

Adesso non facciamo che qualsiasi cosa mi metta a contestare si trasformi in un trattato di psicoanalisi. Questa cosa non ha fatto nessun danno. Voglio solo spiegare che a me il carnevale non piace.

Mi ricordo poi mal volentieri il periodo barbaro degli scherzi: uova marce, schiuma da barba, gavettoni, coriandoli che poi la notte ti ritrovavi nelle pieghe del sedere. Mi muovevo per strada terrorizzata.

Poi c'erano le feste, quelle a tema e io non ne avevo mezza voglia di creare la maschera. Avevo amici che bastava lanciare un soggetto e sembravano un brainstorming in piena. Preferivo accodarmi ma senza troppo entusiasmo.

Meno male che i bambini hanno l'abilità di riconciliarti con alcune prese di posizione. Per sopravvivere, venire loro incontro e non fare di ogni situazione una battaglia da condurre, interpreti il loro entusiasmo e ti diverti con loro.

Carnevale è in corso e in programma ci sono le feste a scuola.
In questi giorni Leo è molto uggioso, un po' musone e io so perché. Sa che ci saranno le feste di Carnevale ma nessuno gli ha detto da cosa si vestirà. Sa bene che la maschera del topino e quella della volpe sono già piccole e potranno andare bene per Picca ma non trova risposta per sé.

"MC, sai che domani c'è la festa di Ca'r'nevale?"

"Sì, Leo, lo so che domani c'è la festa in maschera."

"…"

"… cosa?"

"La volpe è piccola".

"Lo so che è piccola per te. La mettiamo a Picca".

"Già…"

"Ti fidi della tua mamma?"

"Sì, ma anche il topino e piccolo".

"Leo fidati della tua mamma".

Questa mattina, quando è comparso nella mia stanza e ho tirato fuori dall'armadio la sua maschera ha pensato che avessero sostituito la sua mamma: quella che lotta contro l'invasione dei personaggi seriali, che non compra pupazzetti alle macchinette, che dice sempre di muoversi educatamente e non come dei mostri.

Mamma Cattiva si è travestita da Donna invisibile e ha comprato l'Uomo Ragno.

mercoledì 3 febbraio 2010

Mettersi a nudo senza vergogna

Leonardo da Vinci

"Mettersi a nudo senza vergogna"
doveva essere il titolo di Amore assoluto. Il contenuto sostava incompleto in un testo bozza che aprivo e chiudevo saltuariamente, indecisa se svelarlo o meno.
Sono stata a lungo indecisa perché temevo di scoprirmi troppo. I consueti rumori di sottofondo mi suggerivano discrezione sugli aspetti più privati della mia vita. Avrei del resto raccontato del mio male di vivere, della mia malattia, del desiderio del mio corpo di liberarsi di una mente ansiosa, perennemente insoddisfatta e tutto sommato noiosa, pedante.
Eppure il blog cresceva e con lui esplodeva il desiderio di tirare fuori la verità, di raccontare con forza la mia personale esperienza.

Sono le persone che mi leggono che mi hanno dato il coraggio e i commenti ad amore assoluto mi hanno confermato che non stavo sbagliando.

Un mio amico, in privato, mi ha detto che non capiva perché mi fossi denudata. Il perché è nei commenti di risposta, pubblici e privati. Molte donne si sono ritrovate nella mia esperienza e forse si sono sentite meno sole. Per me questo è già tutto. La difesa del proprio mondo è sicuramente un valore ma quando capiamo che il nostro vissuto può ispirare altre teste al ragionamento, alla condivisione di emozioni e alla soluzione, allora vale la pena rinunciare al segreto e uscire allo scoperto.

Queste stesse ragioni mi legano a doppio filo alle conversazioni di Donne Pensanti, generato da Panzallaria o alla richiesta di Capire di Valentina in Valewanda o alle preoccupazioni di Marlene in Tra Rock e Ninna Nanne: le persone possono scegliere dove conversare, dove ascoltare, dove guardare, dove toccare.

Con Amore assoluto denudarsi ha significato dare valore alla nostra sensibilità, regalare degli strumenti di valutazione del successo, una scalata che non si misura in audience ma nel riappropriarsi della propria vita, attraverso il recupero del proprio corpo.

Raccontarmi ha significato dare prova delle mie chiacchere, sostanza alle parole. Ho passato tanto, troppo tempo della mia vita a discutere con la mia famiglia e spesso, durante le frequenti sfuriate, mio padre se ne usciva con una frase buttata lì, per provare ad azzittirmi e togliermi il vizio dell'ultima parola: "Sei brava, tu, con le parole". Ecco, questa asserzione è sempre stata la stoccata finale, la classica goccia corrosiva che mi si infilava dentro e mi faceva sentire ancora più impotente. Ero solo parole, solo chiacchere. Non c'erano fatti che dimostravano il mio valore. Il mio urlo più forte era: "ma cosa valgo io? Che differenza c'è tra esserci e non esserci?".

Se non vi avessi detto che per tre lunghi anni ho desiderato e provato a morire non avreste capito la mia rinascita, vi sarebbe mancato un pezzo di congiunzione e non avreste dato valore alla leggerezza di oggi.

Il percorso non è giunto a un punto di traguardo. Questa non è una favola a lieto fine. La malattia dell'anima è come quella fisica. Siamo soggetti a ricadute, dobbiamo monitorarci. Mi ricordo bene cosa mi disse la mia ginecologa quando scoprii di aspettare Leo. Mi disse: "Mamma Cattiva, lei deve essere consapevole di essere un soggetto a rischio. Lei conosce già molto bene i sintomi della depressione, lei ha già toccato il fondo, nel peggiore dei modi, ma proprio perché ora è qui, è già proprietaria di tutti gli strumenti per riconoscerli e cacciarli via. Non sarà semplice ma se ci è riuscita quella volta d'ora in avanti sarà solo un riconquista di questa nuova vita."