domenica 24 gennaio 2010

L'amore assoluto


La prima grande balla che il mondo ci racconta da femmine piccole è che un giorno, sull'orizzonte, si staglierà la sagoma di un bel principe azzurro sul suo cavallo bianco: arriverà, ci solleverà e ci porterà via nel suo castello incantato. Nonna Cattiva da qualche parte, credo nel suo Talismano della Felicità, conserva un mio tema scritto alle scuole medie (sul foglio protocollo, con lo spazio laterale per le correzioni, ma si usa ancora oggi?), in cui parlo proprio di questo mito. Rivelatorio come nello svolgimento io esprima la mia preferenza per la figura del "cavaliere", figura più combattiva, uomo self-made, più proattivo rispetto al principe, figlio di papà, nato con la pappa pronta, servito e riverito. Molto coerente con questo aspirational, i miei fidanzati non sono mai stati ricchi possidenti e quelli che poi lo sono diventati, impegnandosi, me li sono persi per strada.
Il doc non se la prenda di questa considerazione. Che lui non sia un ricco possidente ma un cavaliere con la maschera che lascia visibile solo il suo sguardo a me piace molto e non lo cambierei con nessun regnante.

La grande bugia però galleggia per lungo tempo sulla superficie del nostro inconscio femminile e, più o meno consapevolmente, passiamo un lungo periodo della nostra adolescenza e del nostro diventare adulte alla ricerca di un salvatore. Almeno per me è stato così e, appigliandomi a questa speranza, ho commesso degli errori che hanno lasciato delle belle cicatrici.

Questa non-verità te la raccontano tutti. Non diamo la colpa solo alla nostra mamma.
Cresci scontrandoti con migliaia di etichette e pre-concetti di genere e ti convinci che essere una donna è solo che un limite e quindi ti conviene dotarti dell'uomo giusto che tutto può e tutto potrà.
Da questa certezza nasce secondo me il concetto di amore assoluto. In questo concetto io sono stata impanata, fritta e rifritta. Mi è stato insegnato che amare significa esprimere e donare sentimenti di amore, lealtà, fedeltà, integrità senza alcuna condizione. Ami infinitamente indipendentemente da quello che ricevi in cambio. Se ci pensate bene, detto così, suona anche bene: io amo qualcuno e non mi aspetto nulla in cambio. Trascorrono le giornate, una dietro l'altra, a litigare e il giorno dopo l'amore assoluto ti regala l'oblio e fai finta di nulla; un giorno quella persona ti tradisce e l'amore assoluto ti permette di perdonare e di ricominciare daccapo; un altro, qualcuno che ami compie un crimine ma visto che la ami in modo assoluto, cerchi di capirlo, l'aiuti e continui ad amarlo. La persona si riscatta e l'amore assoluto ti fa dimenticare ogni sgarbo, ogni parola scomposta, ogni gesto sconsiderato.
Fino a qualche anno fa per me questo era tutto molto logico, radicato nel mio inconscio e qualsiasi voce interiore che mi allontanasse da questa certezza generava enormi sensi di colpa. Perché l'abitudine ai sensi di colpa ci appartiene prima ancora di avere dei figli.

A 25 anni ho scelto liberamente di sposarmi, con un uomo che conoscevo da meno di due anni. Mi sono laureata poco prima e mi sono trasferita a Bologna. Per amore, questo il motivo per cui ho lasciato Roma. La vita scorreva tranquilla, non avevo nulla di cui lamentarmi: avevo una casa, un marito bello e innamorato, gentile e generoso, fedele e premuroso, un lavoro, una città a misura d'uomo, la mia indipendenza tanto anelata. E poi c'era l'amore, quello a prescindere da chi sei tu, da quello che vuoi e dove vuoi andare. Cambiando le carte nulla sarebbe dovuto cambiare. Le carte non cambiavano eppure io non mi sentivo felice.

Quando la mente non trova risposta è il corpo che inizia a dare i suoi segnali. Il mio corpo espresse il desiderio di separarsi dall'anima. Fu il corpo a capire che quella vita non era la mia: un corpo eternamente in fuga che si rese conto di aver scelto l'uomo sbagliato, quello giusto e perfetto per un'altra ma non per quel corpo.
La cosa che feci più fatica a capire è che arriva un momento in cui la volontà non è più in grado di comandare. Oltre un certo limite "volere è potere" sono solo parole. Intorno ti dicono "devi ricominciare a nutrirti", tu ti dici "ma io voglio mangiare, non sono malata". Non si trattava di una consueta e di tutto rispetto storia di anoressia. Soffrivo tecnicamente di disturbi dell'alimentazione ma non sono mai stata definita anoressica. Iniziai e proseguii a non mangiare più perché dovevo punirmi per aver fatto del male a una persona buona e innocente e a tutte le persone che dicevano che infondo potevo essere felice.

L'esperienza è durata diversi anni e non si è risolta al primo turno. Mi sono curata con impegno perché la mia mente è sempre stata lucida e volevo guarire. Il mio corpo però non ne voleva sapere e ogni tanto ricadeva con me incredula, incapace di capire perché fosse così complicato riprendere il controllo della mia volontà. Ci sono riuscita, al solito, a piccoli passi, con l'aiuto di persone e cose.
Mi ricordo che la mia psico-analista mi prestò immediatamente un libro: Le brave ragazze vanno in paradiso e le cattive dappertutto di Ute Ehrhardt. Sosteneva evidentemente che la mia lotta perenne per essere una "brava ragazza" mi impedisse di essere me stessa, di capire che potevo farcela da sola anche senza l'appendice di un salvatore, di qualcun altro che facesse le cose meglio di me.

La vera svolta però fu capire, visceralmente e inequivocabilmente, che non esiste l'amore assoluto. Nulla è più vero dell'amore relativo, quello che si nutre di responsabilità, di coscienza, quello per cui ogni giorno ti guadagni quello che ti torna indietro.
E' una balla che qualsiasi cosa fai, l'altro ne esce indifferente. Nel mio caso non solo mi punivo per non riuscire ad essere quello che gli altri volevano per me, ma nelle relazioni mi permettevo di dire e fare qualsiasi cosa pensando che l'altro avrebbe accettato, mi avrebbe comunque amata. Non è così. Non è mai così. Possiamo raccontarcelo ma, alla lunga, qualsiasi nostra azione genera una reazione.

Lo scenario, per quanto suoni fisico e razionale, non cambia quando hai dei figli. Ci vendono lo stereotipo dell'amore assoluto e trasfigurato e se quindi ti trovi a vivere sentimenti contrastanti pensi di essere malvagia, di essere una mamma cattiva. Se invece capissimo che bilateralmente l'amore è sempre relativo, ci concederemmo dei momenti di pausa, vivremmo i momenti di difficoltà come provvisori e superabili e soprattutto, proprio perché bilaterale, responsabilizzeremmo i nostri figli a dosare parole, opere e omissioni.

venerdì 15 gennaio 2010

Una giornata perfetta

Se avessimo l'opportunità di chiedere l'istituzione di una nuova festività nel calendario "lavorativo", proporrei di garantirci un giorno di vacanza in una città dove per tutti gli altri è un giorno di lavoro.
Questo l'ho scoperto quest'anno che lavoro in una città diversa da dove vivo per cui il giorno del santo patrono me ne sono rimasta a casa mentre il resto del mondo, il doc, i miei bambini, gli amici conducevano la loro vita normale.

[opera di Marta Czok - La spiegazione]

Mi sono alzata presto, ma non troppo, insieme a tutti. Ho fatto colazione senza ingozzarmi. Mi sono fatta carina e non per motivi professionali e ho portato i bambini a scuola.

Rewind: Che quel giorno li avrei accompagnati a scuola, Leo lo sapeva da un po' ed era molto gasato. La sera prima sono arrivata che erano appena andati a letto e sono corsa ad annusarli. Picca era ancora un po' sveglia e mi ha abbracciata. Leo, come sempre era crollato in quei circa trenta secondi ma appena gli ho piantato la bocca sulle guance è scattato in piedi e mi ha detto "Oggi mi po(r)ti tu a scuola?".

Back Forward: La prima è stata Picca. Dal passeggino ogni tanto si girava per capire se veramente ero io o un ologramma e sorrideva sorniona. Leo mi stringeva la mano e saltellava. Al nido le maestre mi hanno riconosciuta perché due anni prima ci portavo Leo, allora con il pancione e poi con la piccola ai corsi di massaggio. Che tempi! Pur di schivare la depressione mi muovevo compulsivamente per le strade.

Dopo toccava a Leo e abbiamo preso un autobus, solo due fermate che per Leo è come andare sulla giostra (e costa pure meno).

Alla materna sono arrivata quindici minuti in ritardo e la maestra (antipatica quanto una puzza) mi ha sgridata. Aveva ragione. Le regole sono regole. Io però ero solo un sorriso e l'ho ignorata. In fondo in tutti gli altri giorni dell'anno Leo è il primo che entra. In compenso ho conosciuto la nuova maestra, quella brava e simpatica (sarà un caso che Leo nomina solo lei). Che questo sia successo a gennaio è sempre meglio che non averla conosciuta affatto. Mentre aiutavo con il grembiule, Leo mi ha bisbigliato nell'orecchio che era tanto che non andavamo a bere insieme una cioccolata calda. "Fa feddo", mi ha detto. "Ok, ci andiamo quando ti vengo a prendere". "Mi vieni pu(r)e a p(r)ende(r)e?"...

Dopo è stato un delirio di onnipotenza. Ho sentito l'amica S. e siamo andate insieme a fare la seconda colazione. Siamo state da Fram Cafè, un luogo delizioso nel centro storico di Bologna, anche questo meta preferita del mio periodo di maternità. Il nome del locale prende spunto dal rumore sordo della caduta del quadro nel film "La leggenda del pianista sull'oceano" di Tornatore, quando in un giorno qualunque e all'improvviso tutto può cambiare. La proprietaria, Elena, ha chiamato così questo posto magico, in onore delle svolte nella vita (quando appunto fai FRAM!) invitando chi passa a lasciare in una gabbietta un messaggio, esprimendo un desiderio di cambiamento. Per me ha funzionato.

Poi non mi sono persa una vetrina. Volevo fare qualcosa di intelligente ma sono riuscita solo a seguire i cartelli SALDI.
Ho provato a raggiungere l'amica N. per disturbarla a lavoro, ma sono stata risucchiata dalla passeggiata. Ho comprato dei regali, un libro per i miei bimbi, costato un occhio della testa, di un'illustratrice che mi piace molto: Un leone a Parigi di Beatrice Alemagna.
More about Un leone a Parigi
Gli facevo la corte da tempo e solo una giornata perfetta poteva convincermi ad acquistarlo.

Ore 13:30 ho recuperato Picca. Mi sono nutrita dell'illuminazione nel suo sguardo quando sono comparsa. Mi ha fatto vedere tutte le sue cose e di nuovo guardava in su, sorridendomi, temendo che scomparissi. Ho pensato "figuriamoci se a casa va a dormire". Invece, arrivate a casa, ciao ciao, ninna, ronf.

Mi sono ributtata nella città. Destinazione amica S., all'ottavo mese di gravidanza. Poi è arrivata l'ora del recupero pomeridiano di Leo. Neanche a dirlo, mi ha subito ricordato la promessa e davanti a ogni bar mi chiedeva se fosse quello il luogo della cioccolata. Servizio completo: tazza grande e panna montata. Era talmente emozionato che l'ha fatta cadere due volte.

Drin, drin. Il doc telefona. Siamo fortunati. Oggi arriva presto. Passa per casa, recupera Picca e ci raggiunge.

Una giornata proprio perfetta.

martedì 5 gennaio 2010

Dare senso ai sensi di colpa


Qualche giorno fa ricevo la mail di Silvia e Serena di Genitori Crescono per invitarmi al tema del mese del Blogstorming. Annunciano che parleremo di "Ecofamiglie". Nella loro mail l'incipit è curioso. Si scusano perché questa volta non si rivolgono a me in prima persona ma con un generico "Carissimi amici blogger". Non che non l'apprezzi, al contrario, ma mi piace questo piccolo senso di colpa verso me medesima, perché hanno sempre più da fare e il tempo scarseggia. Mi piace perché significa che i loro contenuti hanno sempre più valore e sanno di poter contare sulla nostra comprensione. Dovrebbe essere così anche tra mamma e figli: se il mio tempo scarseggia perché aumentano le cose da fare a valore aggiunto, allora i miei figli saranno in grado di capire i momenti in cui non mi occupo di loro direttamente. Smaltimento dei sensi di colpa.

Ora la mia prima reazione è stata "Mumble mumble, e adesso che contributo posso dare?" Poi è partito un vago senso di colpa. Arieccolo, Mr. Senso di Colpa, sempre dietro l'angolo. "Sono io abbastanza eco-compatibile?" Formulo nella testa un breve elenco delle cose che faccio: non spreco acqua, spengo le luci, acquisto prodotti alimentari di stagione e del territorio, separo i rifiuti. Lo insegno ai bambini? Sì: chiudono l'acqua tra una lavata di denti e l'altra; fanno a gara a chi spegne prima la luce. A volte se la spengo io la riaccendono per poi dire che l'hanno spenta loro; ricicliamo vestiti e giochi, a monte e a valle, senza vergogna e pensieri che una cosa di seconda o terza mano sia disonorevole. Ma basta?
Do un'occhiata agli altri contributi…Acci, Mamma Imperfetta ha scritto un post perfetto. Anzi direi che ha scritto esattamente quello che mi passava per la testa. Devo quindi virare i contenuti se no ci ripetiamo.
Aumenta il vago senso di colpa. Uffi. Eppure nel 2009 ci ho lavorato sui sensi di colpa e me ne sono liberata vistosamente.

Idea! Avete presente quando vi regalano una cosa? Cosa rispondete? Prendete e portate a casa? Nella peggiore delle ipotesi esce uno spontaneo "Grazie". Se ve lo dimenticate, riparate con un "oddio, scusa, ero soprappensiero, grazie, grazie infinite".
Oppure, quando qualcuno starnutisce cosa dite? "Salute", mi auguro, sperando che il tipo si metta la mano davanti. Proseguiamo e facciamola più difficile. Quando scendendo dal treno vedete una signora anziana con la valigia, cosa fate? Personalmente mi offro di aiutarla e le porto il bagaglio giù. E tornando ai denti, la sera prima di andare a dormire quale azione mediamente riflessa portate avanti? Io non riesco ad andare a dormire se non mi lavo i denti. Scatta come una sensazione di fastidio.
Quest'estate siamo stati a Villasimius dove il comune gestisce in modo egregio il sistema di smaltimento rifiuti. La vacanza è poi proseguita nella casa in campagna dei miei dove vige lo stesso identico sistema. Abbiamo rispettato le regole e, tornati a casa, a malincuore siamo tornati alla banale separazione tra carta, plastica, vetro&lattine, pile, altro. Questo perché nel centro storico di Bologna non è previsto il supporto per la divisione tra umido e secco. Dopo solo quattro settimane di pratica "esotica", tornati a casa, abbiamo quindi provato un senso di fastidio, come se ci mancasse qualcosa. Chiamamolo "senso di colpa".

Ecco l'idea è che per una volta tanto un senso di colpa abbia poi il suo senso. Nel crescere la nostra famiglia e portarla verso scelte eco dovremmo lavorare ingegnosamente sui sensi di colpa e far sì che ogni volta che facciamo azioni dolose verso l'ambiente parta il disagio, il prurito e si compia quindi l'azione giusta. Più ci lavoriamo da piccoli e più certe attività diventeranno parte di noi, saranno leggere e spontanee. Non è solo l'educazione di dire grazie, prego, permesso e buonasera ma rispetto naturale per l'ambiente e le risorse scarse.

Sarebbe davvero bello se nel mondo sparisse la depressione o l'ansia post partum tipicamente generata dai sensi di colpa e prendesse piede la depressione per eco-incompatibilità. Allora sì che il mondo ne guadagnerebbe.

Questo post partecipa al blogstorming.